Tunisi, 8 marzo 2012
Ci sono innumerevoli cose che non facevo ormai da alcuni anni per tanti motivi: stanchezza, disillusione, sfiducia, forse anche per mancanza di coraggio e un eccesso di pudore legato alla mia naturale introversione.
Fra queste sicuramente le manifestazioni dell’8 marzo per celebrare un rito ormai banalizzato e svuotato di senso.
Ma la mia vita è cambiata perché ormai da quasi un anno vivo in Tunisia, un paese che sta vivendo un incredibile processo di democratizzazione, praticamente dal nulla, o meglio, dalle ceneri culturali, sociali e politiche che le dittatura ha lasciato dietro di sé. Un processo fragile, incerto, quotidianamente attaccato da forze oscurantiste che, pur minoritarie, paradossalmente approfittano della democrazia (in cui non credono) per cercare di imporre con la violenza la propria visione dell’Islam e che soprattutto vorrebbero azzerare i diritti delle donne ed eliminare la loro presenza dallo spazio pubblico.
Ieri verso le 15 all’università della Manouba l’ennesimo oltraggio e l’ennesima violenza, questa volta non solo verbale, contro una donna, l’unica che ha avuto il coraggio di salire sul tetto dove alcuni presunti salafiti (per alcuni sono la base di Ennahdha, per altri ex RCD) avevano sostituito la bandiera nazionale con lo stendardo nero denominato El- Raya che riporta i versetti della chahada, la dichiarazione di fede dei musulmani. Una minuscola donna di cui non è certo neppure il nome (Amal o forse Khaoula) ha affrontato un energumeno ben piazzato per difendere l’emblema nazionale ed è stata violentemente sbattuta a terra.
Sarei comunque andata alla manifestazione per l’8 marzo convocata da diverse associazioni, ma certamente la mia partecipazione ha assunto un valore diverso, dopo gli avvenimenti della vigilia.
Sono arrivata oggi davanti alla sede dell’assemblea costituente dove l’indignazione la rabbia erano palpabili, ma anche l’orgoglio delle donne tunisine che nella rivoluzione sono state in prima fila e che non hanno la minima intenzione di cedere un millimetro dello spazio conquistato. Donne velate e donne a capo scoperto, giovani in jeans attillatissimi accanto ad anziane militanti dell’UGTT (lo storico sindacato tunisino) tutte issavano cartelli artigianali che riportavano articolo dello Statuto personale introdotto da Bourghiba nel 1959. Ognuna di loro con la bandiera tunisina: c’è chi la indossa come un sefsari (l’autentico velo tradizionale del paese), chi la porta sulle spalle, chi semplicemente la sventola. Certo, mai e poi mai avrei pensato di voler difendere un emblema di qualsivoglia nazione… eppure sono qui in mezzo a donne sorridenti, fiere, ostinate, irridenti, indomabili, accanto alle quali si può ritrovare la voglia di combattere. Si parla della violenza familiare (che, ahimè, di sicuro non è cosa estranea all’Italia), si citano sondaggi che parlano di un 50% di mogli maltrattate fisicamente e psicologicamente dai propri mariti, ma si dice anche che probabilmente la percentuale è più alta, dato che nei villaggi sperduti nessuna moglie avrebbe il coraggio di parlare contro il marito che la picchia perché non sa che le cose dovrebbero andare diversamente o comunque è troppo terrorizzata per denunciare i maltrattamenti a cui è sottoposta.
E un mio pensiero è andato alle mamme dei migranti tunisini dispersi con cui condivido l’altra battaglia, quello per il loro diritto a sapere dove sono i loro figli, vivi o morti. Non cederanno mai, finché non sapranno la verità…così come le donne dell’8 marzo 2012 a Tunisi, non cederanno mai di fronte a nessun sopruso, a nessuna violenza, a nessun tentativo di riportarle indietro.
Patrizia Mancini