“Scusate se non siamo affogati”. Said racconta il naufragio dell’11 ottobre 2013 nella zona Sar di Malta.

Il 23 ottobre 2013 abbiamo incontrato alcuni profughi siriani (A., M., H.) che ci hanno raccontato di essere arrivati in Italia con l’imbarcazione che aveva fatto naufragio l’11 ottobre 2013 nella zona Sar di Malta. Abbiamo chiesto loro se volevano fare una video intervista e si sono detti disponibili nel caso in cui avessimo trovato il modo di non renderli riconoscibili, per la paura di ritorsioni nei confronti dei loro famigliari o amici rimasti in Libia e in Siria. Li abbiamo dunque rincontrati il giorno dopo e abbiamo girato queste immagini, che poi abbiamo montato inserendo nel racconto di “Said”, nome inventato, altre immagini e informazioni facilmente reperibili su internet e inerenti alla sua narrazione.

Nel frattempo, è stata pubblicata la video intervista che Fabrizio Gatti ha realizzato a Malta con Mohanad Jammo, il dottore siriano che dalla stessa imbarcazione aveva fatto le telefonate di soccorso alle autorità italiane a partire dalle 11 del mattino. Se i soccorsi fossero partiti subito, il naufragio, avvenuto verso le 17, sarebbe stato evitato e non sarebbero morte più di 250 persone, tra cui moltissimi bambini.

Quel naufragio, però, è avvenuto e dal racconto che ne danno ora i sopravvissuti affiorano le cause e le responsabilità. Innanzitutto, gli spari dell’imbarcazione libica che voleva fermare la nave con a bordo più di 450 persone, in prevalenza profughi siriani. Guardie costiere libiche? Non è dato saperlo: forse no, forse sì. “Forze illegali” afferma Mohanad Jammo nell’intervista di Fabrizio Gatti, ma non è certo facile individuare nella Libia in decomposizione quali siano tutti i possibili attori, “legali” e “illegali”, dei controlli “anti-immigrazione”, mentre tanto l’Unione europea nell’ambito della missione EUBAM (EU Border Assistance Mission), quanto l’Italia, addestrano poliziotti libici per tali operazioni, tra cui quelle di blocco delle imbarcazioni dei migranti lungo le coste libiche. La seconda causa: un’assoluta indifferenza da parte delle autorità italiane dopo le numerose telefonate di SOS. “Chiamate Malta” hanno risposto alle seconda telefonata che giungeva dall’imbarcazione, la quale si trovava infatti nella zona Sar di Malta ma molto più vicina all’isola di Lampedusa.

Che da anni ci sia un contenzioso tanto su chi debba operare nella zona Sar (Search and Rescue, Ricerca e soccorso) di Malta quanto sull’estensione della zona che Malta vuole mantenere e che l’Italia le vorrebbe in parte sottrarre per interessi che nulla hanno a che fare con il “soccorso” dei migranti quanto piuttosto con ragioni economiche, doganali e di petrolio, è cosa nota. Meno noto, forse, è il modo in cui effettivamente si opera o non si opera in quella zona e l’indifferenza rispetto a una chiamata di soccorso che in questo caso, ma in quanti altri?, avrebbe potuto evitare il naufragio. A monte, un’ulteriore responsabilità, quella delle politiche migratorie attraverso cui l’Ue e alcuni dei suoi stati membri, vertice dopo vertice e naufragio dopo naufragio, si appropriano sempre più di un mare e dei territori che stanno sull’altra sponda frapponendo infinite frontiere, tra cui anche quella dell’omissione di soccorso, ai viaggi dei migranti.

Il racconto di “Said”, però, ci lascia intravedere anche dell’altro. Dopo il mare, dopo il naufragio. Due giorni trascorsi sulla nave militare italiana che aveva soccorso lui e altri 55 naufraghi, poi l’arrivo a Porto Empedocle e la permanenza in una struttura chiusa qualche giorno fa e più volte denunciata per l’ammasso in cui venivano lasciati uomini e donne lì provvisoriamente parcheggiati, nessuna informazione sugli altri sopravvissuti sparpagliati tra Malta e Lampedusa, nessuna informazione sul luogo in cui fossero stati portati i bambini che durante l’operazione di soccorso erano stati recuperati dalla stessa nave della Marina militare italiana e che solo dopo tre settimane sono stati ricongiunti con i loro genitori trasportati, invece, a Malta. E infine, la “farsa” delle impronte digitali, con cui l’Italia racconta all’Europa il suo rispetto dei trattati e dei regolamenti Ue, quello di Dublino II, in questo caso, costringendo alcuni con la forza a rilasciarle, come nel video si può vedere dalle immagini che si riferiscono a quanto successo quest’estate a Catania, prendendo in giro altri facendo credere loro che ci sia una differenza tra “impronte per il rifugio” e “impronte di identificazione”, lasciando che qualcuno non le dia, o, ancora, facendosi pagare per non procedere alle identificazioni, come altri profughi stanno man mano raccontando. Ogni stato membro, secondo il regolamento Ue, ha invece l’obbligo di inserire le impronte nel sistema Eurodac di modo che i richiedenti asilo possano essere immediatamente identificati in qualsiasi paese dell’Ue e rispediti in quello della loro prima identificazione. Per questo, da qualche mese ormai, potenziali richiedenti asilo, siriani, eritrei, somali, ecc., stanno facendo la loro battaglia individuale e collettiva per non rilasciarle in Italia. Ma quella delle impronte digitali è una “farsa” che non riguarda solo l’Italia. Nel caso dei profughi siriani, per esempio, alla Svezia che ha fatto sapere che concederà lo status di rifugiato a tutti i profughi siriani che lo chiederanno qualcuno potrebbe ricordare quante frontiere un profugo siriano debba attraversare per arrivare sul suo territorio. Nel caso di “Said”: dopo quelle dell’invivibilità libica e quella del mare e del naufragio, dopo quelle degli spari e quelle dell’omissione di soccorso, quelle dell’Italia e delle sue impronte, quella dell’Austria, della Francia o della Svizzera che bloccano i profughi in arrivo dall’Italia, ….. Ad ogni tappa e ad ogni frontiera, l’attesa che qualche parente invii i soldi per comperare un passaggio più sicuro.

“Scusate se non siamo affogati”, il titolo che abbiamo deciso di dare al video, era un cartello con cui alcuni migranti avevano partecipato alla manifestazione del 19 ottobre a Roma.

Ringraziamo Mohamed (la voce dell’audio in italiano), Marcella, Viola, Marco e Simone per il loro aiuto nelle diverse fasi della realizzazione del video. Un ringraziamento particolare a “Said”, ai suoi amici M. e H. e a I., nostro primo traduttore.

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La terra è di tutte/i. Mari militari-umanitari e terre frontiere: non in nostro nome.

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Il 3 ottobre 2013 a Lampedusa centinaia di persone, uomini, donne, ragazzine/i, bambini/e, sono morte annegate a poche centinaia di metri dalle coste dell’isola. A partire da quel momento tutte e tutti, in varie parti del mondo, abbiamo visto quale sia l’effetto delle attuali politiche migratorie: un mare di morti. Poi, dopo il mare, i morti che si confondevano con i vivi, non solo con i sopravvissuti ma con gli stessi abitanti dell’isola: dove mettere tutti quei corpi, tutti quei sacchi, tutte quelle bare? Dove metterle a Lampedusa? Come trasportarle poi? Dove metterle, una volta trasportate? In quali cimiteri? A partire da un mare di morti anche la terra si è risvegliata più stretta e priva di spazio, sommersa dai cadaveri nei sacchi allineati sul molo e dalle bare numerate nell’hangar dell’aeroporto, impreparata a trovare luoghi decenti per i sopravvissuti, incapace di gestire il terribile lavoro del riconoscimento, sovrastata dal dolore di familiari che si aggiravano sull’isola di Lampedusa arrivando da posti diversi del mondo per dare un nome ai numeri sulle bare mentre le bare venivano fatte partire e tumulate in vari luoghi della Sicilia ancora numerate.

Prima del 3 ottobre 2013 quel mare era già un mare di morti, 20.000 corpi, dicono coloro che in questi anni si sono dedicati al loro “censimento”, e anche la terra era già stretta, i cimiteri erano già pieni di bare tumulate senza identificazioni, i familiari si aggiravano già, ma nelle loro case e nel loro dolore senza sapere dove andare per cercare. Dopo il 3 ottobre 2013 il mare ha continuato a inghiottire vite, mentre sulla terra i sopravvissuti ai naufragi o alle traversate si aggirano tra i moli di una frontiera, a Calais, o tra i corridoi di una stazione di una frontiera improvvisata, a Milano, sperando di poter raggiungere i loro parenti, altri, già arrivati in Germania chiedono di poter restare, e tutte e tutti scoprono tra coperte gettate sui pavimenti di moli, stazioni, strade, tra panini e bicchieri di plastica, tra Cie e identificazioni forzate, che su questo spazio di terra chiamato Europa non c’è posto per loro. Continua a leggere

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The Syrians stopped in Calais by the European countries

FRANCE-BRITAIN-MIGRATION-SYRIA

First of all we want to tell you, Europeans, that our suffering has started when we demanded freedom and life. At that time we were shot and our children and women were killed in the public eye of the countries of the world and of human rights organizations. The people who survived want to live safely; they emigrated and left their homes in order to live peacefully and not being criminals in Syria. The bad treatment received by some European countries pushed many Syrian people to go back to Syria to kill or to be killed. For example, Italy forced people to give fingerprints through violence. We, in Calais and in France, are suffering: we are living a very awful life here, because we don’t have shelters, food and any other thing. And we are sleeping in parks and squares or in old houses and nobody cares of us. Our bad condition has increased in the last weeks due to the winter is coming. We appeal the UK – that we have chosen as a place where we want to live – to help us in order to put an end to our suffering; and we also appeal human right organizations to support Syrian people who started to go back to fight and die in Syria. Continua a leggere

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Quando le resistenze agiscono (1)

Il 21 settembre, in Tunisia, sono stati arrestati otto artisti militanti. Questo è solo uno dei tanti episodi di repressione attraverso cui si stanno ricomponendo i poteri controrivoluzionari. Abbiamo conosciuto alcune delle persone arrestate perchè insieme a loro abbiamo condiviso dei momenti della campagna ‘Da una sponda all’altra: vite che contano’. Pubblichiamo questo articolo perchè la repressione colpisce quando le resistenze, con atti e parole, agiscono e non si limitano ad esprimere.

La prigione di tutti i tunisini                                                                                 Discorso di Najib Abidi, uno degli arrestati del 21 settembre, pronunciato in occasione della proiezione dell’ultimo film di Abdallah Yahya, “Un retour”, diffuso venerdì 27 settembre 2013 allo “Human Screen Festival” di Tunisi.

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“Sei giorni di Bouchoucha [prigione di Tunisi], sei giorni di sconfitta. Una sconfitta che non è solo quella degli artisti ma quella di tutti i tunisini.

La prigione con cui si confrontano i nostri amici Abdallah Yahya, Yahya Dridi, Slim Abida, Mahmoud Ayed, ma anche altri artisti prima di loro, Weld el 15, Phenix, Klay BBJ, Jabeur Mejri, …. è la prigione di tutti i tunisini. Continua a leggere

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Quando le resistenze agiscono (2)

Il 21 settembre, in Tunisia, sono stati arrestati otto artisti militanti. Questo è solo uno dei tanti episodi di repressione attraverso cui si stanno ricomponendo i poteri controrivoluzionari. Abbiamo conosciuto alcune delle persone arrestate perchè insieme a loro abbiamo condiviso dei momenti della campagna ‘Da una sponda all’altra: vite che contano’. Pubblichiamo questo articolo perchè la repressione colpisce quando le resistenze, con atti e parole, agiscono e non si limitano ad esprimere.

Cronache tunisine dall’esterno dell’interno. Tra libertà provvisorie e atti di “fellagha”.                                                                 Federica Sossi

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“Sono stancaaaaa, persino i nomi si mescolano nella mia mente. Non so più chi è arrestato e per che cosa”.

Ci avevano raccontato, un tempo non molto lontano, dopo un giorno di gennaio, che quella rivoluzione era stata fatta con facebook, mentre la farcivano di gelsomini ed evocavano primavere. Una rivoluzione virtuale che apriva il cammino, un po’ affannoso forse, ma sicuramente in discesa, di una rapida transizione verso il sole della democrazia: libere elezioni, lunghe file alle urne, un partito maggioritario, islamista ma moderato, la formazione di un governo, e una fase costituente alla fine della quale si sarebbero trovati tutti nel regno compiuto della democrazia rappresentativa così cara al mondo avanzato. Le avevano assegnato delle date d’inizio e di fine, un tempo breve per le sommosse e il caos nelle strade, da coprire con l’ammirazione e lo stupore generalizzati dinanzi a un risveglio improvviso praticato attraverso l’arma gentile di uno schermo a partire dal quale, poi, nel tempo di transizione, lasciare fluire le proprie parole, libere espressioni innocue che avrebbero permesso di assaporare il gusto meraviglioso dello scambio d’opinione e del fervore della società civile, sale di ogni sana democrazia. L’Ue, che aveva partecipato alla costruzione di questo racconto, per cercare di rendere più allettante quella strada in discesa aveva riversato persino qualche finanziamento, in un tempo di crisi avaro di sprechi, per creare dal nulla e in tutta fretta una società civile associativa secondo il modello rodato delle società occidentali, cercando di incanalare in tal modo il desiderio di ribellione e di karama (dignità) espresso nelle strade verso la neutralizzazione degli statuti, dei presidenti, dei funzionari salariati e degli indispensabili dépliant patinati per pubblicizzare il lavoro dell’associazione. Continua a leggere

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Quando le resistenze agiscono (3)

Il 21 settembre, in Tunisia, sono stati arrestati otto artisti militanti. Questo è solo uno dei tanti episodi di repressione attraverso cui si stanno ricomponendo i poteri controrivoluzionari. Abbiamo conosciuto alcune delle persone arrestate perchè insieme a loro abbiamo condiviso dei momenti della campagna ‘Da una sponda all’altra: vite che contano’. Pubblichiamo questo articolo perchè la repressione colpisce quando le resistenze, con atti e parole, agiscono e non si limitano ad esprimere.

 «Soutenez-nous»                                                                                                           Lettre d’un activiste tunisien à Edgar Morin

Azyz Amami, un des blogueurs emblématiques de la révolution qui a renversé le régime de Ben Ali en 2011, écrit une lettre ouverte à Edgar Morin pour lui raconter cinq histoires de la Tunisie actuelle, et lui demander de soutenir les jeunes résistants d’aujourd’hui.

libre

Cher monsieur Morin, avant de commencer, laissez-moi vous faire cette confidence : je ne croyais pas que vous écrire aurait été une tâche si dure. J’ai commencé cette lettre il y a douze jours. Mais à chaque fois que j’avançais, je ne pouvais que reculer pour réexaminer ce que j’écrivais. Quand on s’adresse à vous, monsieur Morin, il faut savoir mesurer ses paroles. Le poids de votre travail cognitif et de votre lutte impose le respect.

J’ai d’abord entrepris de vous écrire cette lettre en réponse à la tribune publiée sur le site de Libé, intitulée « Soutenons les jeunes en Tunisie » et à laquelle vous avez apporté votre signature. Continua a leggere

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Quando le resistenze agiscono (4)

Il 21 settembre, in Tunisia, sono stati arrestati otto artisti militanti. Questo è solo uno dei tanti episodi di repressione attraverso cui si stanno ricomponendo i poteri controrivoluzionari. Abbiamo conosciuto alcune delle persone arrestate perchè insieme a loro abbiamo condiviso dei momenti della campagna ‘Da una sponda all’altra: vite che contano’. Pubblichiamo questo articolo perchè la repressione colpisce quando le resistenze, con atti e parole, agiscono e non si limitano ad esprimere.

Fate qualcosa                                                                                                       Appello delle Donne In Movimento della Valle di Susa

donnenotavFate qualcosa.
La rete di persone che in questi lunghissimi anni è stata tessuta inItalia e anche all’estero si fa viva con telefonate, e-mail, sms per chiedere che si faccia qualcosa (conurgenza), che ci si materializzi per cercare di arginare la valanga di fango che scientificamente orchestrata tenta di sommergerci. (Fate qualcosa).  Ma come, ancora? Pensavamo di aver fatto edetto/di tutto. Cos’altro ci dobbiamo ancora inventare? Strano come questa domanda rappresenti beneil quotidiano femminile (domanda storica). Sempre pronte ad interrogarci a inizio come a fine giornata: Ho dimenticato qualcosa? E’ tutto a posto? Ho fatto tutto? (come sempre e sempredi più delegate a coprire le mancanze dello stato sociale). Continua a leggere

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Il carcere per la produzione artistica in Tunisia

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Comunicato delle attiviste e degli attivisti tunisini sugli arresti del 21 settembre

Nella notte tra venerdì e sabato 21 settembre 2013, verso le 4, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, insieme a due amiche artiste e studenti attiviste, sono stati arrestati a casa di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.

Non siamo ancora riusciti ad avere molte informazioni: sappiano che prima sono stati portati al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, dove sono rimasti per circa dodici ore e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica. Ad ora, ignoriamo totalmente il luogo dove sono stati condotti e il loro stato di salute. Non è stata fornita alcuna ragione ufficiale che giustifichi il loro arresto e la loro detenzione. Continua a leggere

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Le mamme tunisine incontrano le mamme NO-MUOS

donne alberi

Segnaliamo molto volentieri l’iniziativa, organizzata dal Laboratorio Zeta di Palermo, “Da una sponda all’altra: vite che contano. Pratiche di r-esistenza nel Mediterraneo” in cui le mamme dei tunisini dispersi in delegazione in Italia incontreranno le mamme NO-MUOS di Niscemi.

A seguire, la presentazione dell’iniziativa. Continua a leggere

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I dispersi e i morti nel Mediterraneo hanno un nome

tuni

[…] un pensiero per i molti, troppi morti senza nome che il nostro Mediterraneo custodisce”. Dal discorso di insediamento della Presidente della Camera.

I dispersi e i morti nel Mediterraneo hanno un nome. In questi giorni circola un appello delle madri e delle famiglie dei migranti tunisini dispersi, che conoscono i loro figli, sanno quando e come sono partiti per attraversare il Mediterraneo e da due anni pretendono che le istituzioni rendano conto della loro vita. Noi assumiamo il loro sguardo e non quello delle politiche migratorie per le quali le vite non contano, rendono senza nome i morti e i dispersi del Mediterraneo e invisibili le proprie responsabilità. Per questo sosteniamo l’appello delle madri e delle famiglie tunisine che chiede all’Unione Europea l’istituzione di una commissione di inchiesta sui dispersi.

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