Quando abbiamo ricevuto questo appello ci siamo interrogate se e come assumerlo e abbiamo deciso di “esserci”, di non distanziarci da quel dolore che costituisce, secondo noi, un fatto del tutto politico e di una politica altra, non immaginata ma praticata.
Perché ci siamo chieste infinite volte come superare le barriere, quell’innalzamento di confine noi/loro che riduce “loro” a soggetti invisibili. Perché da tempo esploriamo i nessi fra le politiche di governo delle migrazioni che hanno consentito il nascere dei Centri di identificazione ed espulsione, dove sono rinchiusi donne e uomini migranti privati dei diritti umani fondamentali e bollati come “illegali”, e ciò che limita e ingabbia le nostre vite di cittadine cosiddette “legali”.
Chi decide di spostarsi, indipendentemente dalle motivazioni che lo/la spingono, viene in effetti confinato nel ruolo di migrante/clandestino/a/criminale/nemico/a e in tal modo posto in condizione di perenne sospensione. Non a caso il/la migrante è definito dalla legge italiana “CLANDESTINO/A”, invisibile appunto.
Tanto invisibili da poter scomparire nel transito senza che nè lo Stato di partenza né quello di approdo si preoccupino di cercarli e sebbene gli attuali sistemi di identificazione consentano un controllo preciso e costante delle persone e dei lori spostamenti – basti pensare alle numerose banche dati ove confluiscono tutte le impronte digitali di chi migra verso la “fortezza Europa” -l’utilizzo che se ne fa è unicamente funzionale alla governabilità dei corpi.
I/le migranti vengono identificati per finire in un Cie o per essere rimpatriati ma non sono degni di essere cercati neppure quando i loro familiari ne denunciano la scomparsa.
Al tempo stesso, il desiderio di partire verso altri luoghi fa sì che, indipendentemente dalle ragioni per cui ci si muove e, anzi, per il fatto solo di essere agita, la migrazione diventi una vera e propria strategia di resistenza rispetto a una situazione in cui tutte le vie legali sono prive di sbocco.
Nei volti di molti tunisini appena sbarcati in Italia dopo la caduta del regime si leggeva la gioia per una nuova vita e nelle parole emergeva nettamente il desiderio di libertà (cfr.
http://www.storiemigranti.org/spip.php?article922 “Dalla Tunisia al CARA di Mineo – L’oxygène de la liberté”.)
Libertà di andare e di venire, di spostarsi verso altri luoghi, di contrastare l’ingiusta differenziazione tra il viaggio di un/a italiano/a e quello di un/a tunisino/a, è questo che ci raccontano i familiari dei tunisini dispersi.
Il desiderio dei familiari dei tunisini dispersi per la vita dei loro figli è talmente radicale da superare confini e barriere e giungere sino a noi che non possiamo restarne indifferenti perchè con sé porta il desiderio di libertà che quegli uomini e donne hanno agito nell’attraversamento dello spazio.
L’azione di migrare diventa una lotta per la circolazione e il diritto di mobilità e questo la colloca necessariamente all’interno di un più ampio percorso/discorso di liberazione e trasformazione sociale, che come femministe ci riguarda pienamente.