Ringraziamo tutte per aver partecipato a questa assemblea che abbiamo voluto organizzare per parlare del nostro percorso come collettivo femminista, confrontarlo con quello di altre donne e provare insieme a immaginare percorsi comuni che possano superare quella frammentarietà delle lotte che caratterizza il movimento. Siamo un collettivo femminista composto da donne diverse per età e storia personale. Il nome del collettivo – Le2511 – indica una data precisa, quella cioè del 25 novembre 2009, quando, ognuna di noi ha partecipato al presidio antirazzista a Milano in Piazzale Cadorna, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, dove per uno striscione che denunciava – “NEI CIE LA POLIZIA STUPRA” – sono partite le cariche della polizia e alcune compagne sono state ferite. Quello striscione esplicitava la violenza sessuale agita sulle donne migranti rinchiuse nei Centri di identificazione ed espulsione e faceva anche riferimento ad uno specifico fatto di violenza sessuale avvenuto all’interno del Cie di via Corelli a Milano, e cioè il tentativo di stupro da parte dell’ispettore capo di polizia ai danni di Joy, una donna nigeriana che dopo avere subito la tratta della prostituzione è stata imprigionata in Italia per non avere i documenti di soggiorno.
Da quella mobilitazione è iniziato il nostro percorso come collettivo e ci siamo all’inizio interrogate su due quesiti:
ci siamo chieste perchè delle violenze sulle donne migranti rinchiuse nei Cie nessuno parli e ci sia una rimozione anche da parte del movimento delle donne; questo comporta che assuma importanza a chi è fatta la violenza e lascia spazio al fatto che lo stato si autoassolva. In questa prospettiva la vicenda di Joy assume un valore emblematico, perchè se da un lato rompere il muro di silenzio sui ricatti e abusi sessuali all’interno dei Cie, dall’altro la vicenda giudiziaria apertasi con la denuncia del tentativo di stupro si è conclusa con l’assoluzione dell’ispettore capo e il rischio ora per Joy di essere processata per calunnia;
d’altra parte ci siamo interrogate sull’invisibilità del Cie, di cui non si parla non si conoscono le condizioni di reclusione dei migranti e molti neppure sanno dell’esistenza del Cie di via Corelli, nonostante sia a pochi chilometri dal centro della città.
Per dare risposta a questi interrogativi siamo partite da noi, cercando di esplicitare ciò che ci ha spinte a mobilitarci. A ben vedere, infatti, i Cie rappresentano la barriera per eccellenza del modo in cui le politiche di contenimento delle migrazioni dividono l’umanità: da un lato “noi” e dall’altro “loro”, dove noi, per essere italiane, siamo confinate, lo si voglia o meno, dalla parte della barriera che crea oppressione ed esclusione.
Da queste nostre riflessioni abbiamo prodotto una mostra che individua alcuni nessi fra le politiche di contenimento delle migrazioni e ciò che limita e ingabbia le nostre vite di cittadine cosiddette “legali”, spinte dal desiderio non solo di “indagare” sulla metropoli sicuritaria e sui Cie ma di “indagarci” dentro di essa, nelle nostre relazioni e percorsi: la precarietà, lo sfruttamento, le violenze contro le donne, la guerra, il neocolonialismo, l’attacco ai beni comuni, le discriminazioni, i modelli dominanti, i Cie per le/i migranti.. tutti recinti che ingabbiano i nostri corpi e i nostri desideri e, come detto, .
Sentiamo l’esigenza di rovesciare la prospettiva, cercando pratiche che non si limitino alla denuncia ma che siano pratiche quotidiane di relazioni che superino queste divisioni imposte e su questo vorremmo confrontarci con voi.